LA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE DI ROMA 
                              Sezione 5 
 
    riunita con l'intervento dei signori: 
        Novelli Giovanni - Presidente; 
        Verde Adele - relatore; 
        Destro Carlo - giudice, 
    ha emesso la seguente ordinanza: 
        sul ricorso n. 6581/2015 depositato il 16 marzo 2015; 
        avverso diniego rimborso n. 0058440/2014 Trib. locali 2013; 
        avverso diniego rimborso n. 0058440/2014 Trib. locali 2014. 
    Contro: Autorita' garante della concorrenza  e  del  mercato  c/o
Avvocatura generale dello Stato, piazza Verdi n. 6 A - 00100 Roma. 
    Proposto dai ricorrenti: Bertazzoni Spa -  via  Palazzina  n.  8,
42016 Guastalla Re, difeso da: avv. Massimo Coccia -  piazza  Adriana
n. 15, 00193 Roma RM,  difeso  da:  avv.  Massimo  Luciani  -  piazza
Adriana n. 15, 00193 Roma RM, difeso da: dott. Tefano  De  Angelis  -
piazza Adriana n. 15, 00193 Roma RM. 
 
                                Fatto 
 
    Con ricorso notificato in  data  16  febbraio  2015  la  societa'
Bertazzoni  S.p.A.  ha  proposto  impugnazione  avverso  il   diniego
espresso dall'Autorita' garante della concorrenza e  del  mercato  al
rimborso dei contributi versati a norma dell'art. 10  commi  7-ter  e
7-quater della legge n. 287/1990 e delle relative delibere  dell'AGCM
n. 24352/2013 e 24766/2014 a seguito della istanza  presentata  dalla
societa' in  data  16  luglio  2014  per  ottenere  il  rimborso  dei
contributi versati per gli anni 2013 e 2014. 
    La ricorrente preliminarmente sostiene la giurisdizione di questa
Commissione a pronunciarsi sul ricorso sulla base di diverse pronunce
sia della Corte costituzionale sia della Suprema Corte di cassazione.
In particolare con la sentenza n. 256/2007 il giudice delle leggi  si
e'  espresso  in  merito  al  contributo  dovuto  per  le  spese   di
funzionamento dell'Autorita' per la  vigilanza  sui  lavori  pubblici
qualificandolo di indubbia natura  tributaria  per  il  carattere  di
obbligatorieta' e generalita'. Tanto premesso la ricorrente  sostiene
che la norma di legge istitutiva del contributo in questione  sia  in
contrasto tanto con il diritto dell'Unione europea quanto  con  varie
norme della nostra Costituzione. 
    Ad opinione della ricorrente  il  contributo  di  cui  chiede  il
rimborso contrasterebbe con gli articoli 16 (liberta' d'impresa),  17
(diritto di proprieta'), 20 (uguaglianza di fronte alla legge)  e  21
(non discriminazione) del Trattato istitutivo dell'UE.  Cio'  perche'
la struttura del contributo introduce  disparita'  di  trattamento  a
fronte   di   situazioni   omogenee,    ad    esempio    stabilendone
l'obbligatorieta'  solo  per  imprese  aventi  un   volume   d'affari
superiore a 50 milioni di  euro,  mentre  tutte  le  imprese  possono
usufruire dei benefici derivanti dall'attivita' del garante.  Inoltre
l'aliquota fissata sarebbe eccessiva, tanto da originare  un  gettito
pari a quasi il doppio delle entrate stanziate a carico del  bilancio
dello Stato  prima  dell'istituzione  del  contributo.  Questo,  poi,
sarebbe superiore al budget annuale  dell'omologa  Direzione  per  la
concorrenza dell'UE e di poco inferiore a quello della corrispondente
Commissione antitrust degli Stati Uniti d'America, Il  contrasto  con
la  nostra  Costituzione  si  verificherebbe  in  relazione  ai  suoi
articoli 3 e 53 che prevedono l'obbligo per tutti di concorrere  alle
spese pubbliche in ragione della loro capacita' contributiva,  mentre
il  contributo  e'  dovuto  solo  per  imprese  con  volume  d'affari
superiore ai 50 milioni. La ricorrente ricorda ancora come  la  Corte
costituzionale abbia stabilito con sentenze n. 116/13 e n. 223/12 che
l'irragionevolezza di un tributo puo' risiedere non nell'entita'  del
prelievo ma nell'ingiustificata limitazione della platea dei soggetti
passivi. 
    Conclude chiedendo la disapplicazione delle norme impositive  del
contributo per contrasto con la normativa comunitaria, annullando  il
diniego al rimborso e condannando l'Autorita' al rimborso  di  quanto
pagato  o,  in,  subordine,  di  sollevare  di  fronte   alla   Corte
costituzionale questione di costituzionalita' delle norme  che  hanno
introdotto il contributo per contrasto con gli articoli 3, 23,  53  e
117 della Costituzione. 
    L'Autorita'  garante  della  concorrenza  si  e'  costituita   in
giudizio con il solo fascicolo di parte  senza  allegare  la  memoria
difensiva. 
 
                               Diritto 
 
    1. Il collegio condivide la tesi esposta dalla  ricorrente  sulla
natura tributaria dei contributi all'AGCM. 
    Si tratta, infatti, di imposte che sono state  articolate  in  un
determinato modo dal legislatore  per  cercare  di  ridurre  i  costi
diretti a carico dell'erario e far ricadere l'impegno  di  spesa  sui
destinatari obbligati del servizio. 
    Come  ricordato  in  ricorso,  la   Corte   costituzionale,   con
riferimento al sistema di finanziamento dell'Autorita'  di  vigilanza
sui lavori pubblici, ha gia' dichiarato (sentenza n. 256 del 2007) la
natura tributaria delle prestazioni poste a carico  della  platea  di
soggetti individuati come destinatari dell'obbligo  di  contribuzione
(i partecipanti  alle  gare),  in  considerazione  dei  caratteri  di
generalita' e obbligatorieta'. 
    Orbene, essendo il sistema di finanziamento dell'Autorita' per la
concorrenza ed il mercato del tutto analogo a quello ora indicato non
puo' ricorrere dubbio circa  la  natura  di  tributo  anche  per  gli
analoghi contributi richiesti agli operatori economici  che  superino
una certa entita' di fatturato. 
    Una  volta  appurata  la  natura  tributaria  delle  obbligazioni
riguardate dal presente ricorso, ritiene questa Commissione come  non
ci si possa non conformare all'insegnamento delle Sezioni Unite della
Cassazione (n. 6315 del 2009 e n. 11082 del 2010) secondo  il  quale:
«La giurisdizione del giudice tributario, a  seguito  della  modifica
introdotta dall'art. 12, comma secondo, della legge 28 dicembre 2001,
n. 448 all'art. 2 decreto legislativo 31 dicembre 1992,  n.  546,  ha
carattere pieno ed esclusivo, estendendosi non solo  all'impugnazione
del provvedimento impositivo, ma anche alla legittimita' di tutti gli
atti del procedimento, ivi compresi gli ordini di verifica, a seguito
dei quali l'attivita' di accertamento  inizia.  Gli  eventuali,  vizi
degli  ordini  di   verifica,   in   quanto   atti   della   sequenza
procedimentale, potranno  tuttavia  essere  dedotti  soltanto  e  nel
momento in cui si impugni il provvedimento che conclude  l'«iter»  di
accertamento. 
    Nel caso di specie, essendo in discussione il rimborso di imposte
gia' pagate e che si affermano non puo' essere revocata in dubbio  la
giurisdizione tributaria. 
    Come ricordato dalla Corte costituzionale  (sentenza  n.  64  del
2008)  sussiste  un  nesso  di  inscindibilita'   fra   giurisdizione
tributaria e la materia tributaria la cui  violazione  darebbe  luogo
alla violazione dell'art. 102,  secondo  comma,  della  Costituzione,
come peraltro gia' piu' volte affermato con le ordinanze n.  395  del
2007, n. 427, n. 94, n. 35 e n. 34 del 2006. 
    2.  Preliminare  e'  l'esame  della   pregiudiziale   comunitaria
sollevata nel ricorso introduttivo. 
    Si sostiene che i commi 7-ter e 7-quater dell'art. 10 della legge
n. 287 del 1990 sono in contrasto col diritto della  Unione  europea,
segnatamente col diritto di stabilimento nel mercato comune (art. 49,
ex art. 43 T.C.E.) e  con  il  diritto  alla  libera  prestazione  di
servizi nel mercato europeo (art. 56 T.F.U.E., ex art. 49 T.C.E.). La
questione  va  esaminata  in  via  preliminare  in   quanto   secondo
l'insegnamento della Corte  costituzionale  la  compatibilita'  della
norma indubbiata con le direttive comunitarie che regolano la materia
costituisce profilo che,  attenendo  alla  operativita'  della  norma
medesima,  investe  la  rilevanza   della   relativa   questione   di
legittimita' costituzionale, onde, ai sensi dell'art. 23, legge n. 87
del 1953 - il giudice a quo deve  farsi  carico  di  tale  profilo  e
motivare sul punto, pena l'inammissibilita' della questione sollevata
(Corte costituzionale ordinanza n. 38/95; n. 249/01). 
    Ritiene il Collegio che le norme di diritto della Unione  europea
richiamate  dalla  parte  ricorrente  non  siano   risolutive   della
controversia. 
    Quanto alla contrarieta' con diritto di stabilimento nel  mercato
comune basta rilevare che le decisioni della Corte di giustizia della
Unione europea hanno riguardato ipotesi in cui la discriminazione era
a favore del soggetto estero che avesse fissato la sede della propria
attivita' economica o costituito un centro di attivita' stabile in un
diverso Paese (nel nostro caso l'Italia). Nella attuale controversia,
invece, il soggetto che  si  lamenta  della  discriminazione  e'  una
societa' italiana con sede in Italia. 
    Quanto alla violazione con il diritto alla libera prestazione  di
servizi nel mercato europeo la sentenza sez. VIII,  18  luglio  2013,
cause da C-228/12 a C-232/12 e  da  C-254/12  a  C-258/12  (Vodafone,
Omnitel, NV e altri) della Corte di giustizia della Unione europea in
merito alla imposizione di un contributo per il  finanziamento  della
AGCM ha fissato il seguente principio: «Se e' consentito  agli  Stati
membri  imporre  alle  imprese  che  prestano  servizi  o   reti   di
comunicazione elettronica un  diritto  per  finanziare  le  attivita'
dell'ANR, cio' vale, tuttavia, a  condizione  che  tale  diritto  sia
esclusivamente destinato  alla  copertura  dei  costi  relativi  alle
attivita' menzionate nell'art. 12, paragrafo  1,  lettera  a),  della
direttiva autorizzazioni, che la  totalita'  dei  ricavi  ottenuti  a
titolo di detto diritto non superi i  costi  complessivi  relativi  a
tali attivita' e che lo  stesso  diritto  sia  imposto  alle  singole
imprese in modo proporzionato, obiettivo e trasparente». 
    In base a tale principio, ove lo  si  ritenga  applicabile  anche
all'Autorita' garante della concorrenza e del mercato,  e'  possibile
imporre l'obbligo di finanziare il  servizio  reso  dall'Autorita'  a
condizione  che  i  contributi  versati  abbiano  come   destinazione
esclusivamente la copertura dei costi della autorita'. 
    Nel caso in esame non  e'  in  discussione  la  destinazione  dei
contributi in quanto la stessa societa'  ricorrente  non  dubita  che
essi debbano essere  utilizzati  per  coprire  i  costi  di  gestione
dell'Autorita'  garante.  Infatti,  ne'  la  ricorrente,  ne'  questo
Collegio sono in grado di stabilire se le somme versate  siano  state
utilizzate o meno dall'Autorita'.  In  particolare,  nella  relazione
illustrativa del bilancio di previsione per l'anno 2014 e programmata
per il triennio 2014-2016 prodotto dalla Autorita' si da' atto che e'
stato introdotto il nuovo criterio e si assume  che  il  bilancio  e'
stato  predisposto  nella  misura  in  cui  le  contribuzioni   siano
sufficienti a coprire il fabbisogno della Autorita'  (infatti  vi  si
legge che «tenuto conto della nuova aliquota e del contesto economico
finanziario  che  sta  caratterizzando  il  Paese,  la  misura  delle
contribuzioni a  carico  delle  imprese  per  l'anno  2014  e'  stata
prudenzialmente stimata in 60 milioni di euro»). 
    Nessun elemento, tuttavia, viene fornito a questa Commissione  da
cui si possa desumere la corrispondenza  tra  le  somme  incassate  e
quelle utilizzate per le spese di  funzionamento  dell'Autorita'.  In
mancanza di tale elemento di giudizio, le richiamate norme di diritto
comunitario non appaiono risolutive della presente controversia. 
    3. Cio' posto, gia' questa Commissione ha sottoposto la questione
alla Corte costituzionale,  con  ordinanza  del  18  marzo  2016,  n.
1167/2016. 
    In particolare questa Commissione ha rilevato: «Invero,  ad  onta
del principio di eguaglianza, sancito nell'art. 3 della costituzione,
e del generale obbligo di concorrere alle spese pubbliche in  ragione
della rispettiva capacita' contributiva come  previsto  dall'art.  53
della Carta, sono state  escluse  dall'obbligo  di  contribuzione  le
categorie non imprenditoriali, quali i consumatori che pure fruiscono
e sono i beneficiari della attivita' regolatrice  dell'Autorita'  (il
rispetto della libera concorrenza e' rilevante per tutti i cittadini)
e quali le pubbliche amministrazioni, che svolgono la loro  attivita'
con efficacia diretta o indiretta sul mercato  creando  o  eliminando
distorsioni alla concorrenza. Gia' questa  limitazione  della  platea
dei soggetti chiamati a contribuire appare sostanziare il  dubbio  di
contrasto delle norme in esame con i  principi  costituzionali  sopra
indicati. 
    Oltre  alla  limitazione  della  platea  dei  contribuenti   alla
categoria dei soli imprenditori si deve rilevare altresi' l'ulteriore
dubbio  di  costituzionalita'   derivante   dall'assoggettamento   al
contributo solo di una percentuale ridotta  di  imprenditori,  quella
con volume di affari superiore a 50 milioni  di  euro.  Sotto  questo
profilo appare poi dubbia la conformita' con  gli  indicati  principi
costituzionali del parametro del volume di affari  che  non  coincide
necessariamente  col  criterio  di  redditivita'  di  un'impresa  ben
potendo a parita' di fatturato essere ben diversi i profitti e quindi
la redditivita' fra imprese operanti in settori diversi. 
    Non puo' neppure escludersi che ad un  elevato  fatturato  faccia
poi riscontro un  saldo  negativo  del  conto  economico  che  quindi
chiuderebbe in perdita. Complessivamente considerando  la  previsione
legislativa la stessa  non  sembra  corrispondere  con  sicurezza  al
principio della capacita' contributiva ma anzi sembra  idonea  a  non
determinare corrispondenze  fra  redditivita'  dell'impresa  e  costi
fiscali che la stessa viene chiamata a sostenere. 
    Ulteriore dubbio  di  costituzionalita'  appare  ravvisabile  con
riferimento al principio di progressivita'  dell'imposizione  fissato
dal secondo  comma  dell'art.  53  della  Costituzione  in  quanto  i
soggetti  con  maggiore   capacita'   contributiva   possono   essere
destinatari di obblighi di contribuzione in proporzione meno  gravosi
di  quelli   gravanti   sui   contribuenti   con   minore   capacita'
contributiva: a tale  effetto  appare  condurre  la  limitazione  del
contributo nel senso che il suo massimo non puo' essere  superiore  a
cento volte la misura minima. 
    Nella sostanza puo' avvenire allora  che  il  tributo  non  venga
applicato  in  modo  progressivo   secondo   la   diversa   capacita'
contributiva delle imprese ma in misura proporzionale (e solo  al  di
sopra di  una  certa  soglia)  senza  tener  conto  delle  piu'  alte
capacita'  contributive  per  poi  divenire  regressivo   una   volta
raggiunta una certa soglia. 
    Pur tenendosi presente come  il  legislatore  possa  diversamente
modulare l'imposizione fiscale fra diverse aree economiche o  diverse
tipologie di contribuenti, pur  tuttavia  ogni  diversificazione  per
tipologia  di  contribuenti  deve  essere  supportata   da   adeguate
giustificazioni in assenza delle quali la  differenziazione  degenera
in arbitraria discriminazione (Corte costituzionale n. 10/2015). Come
affermato dal giudice delle leggi  (sentenza  n.  142  del  2014)  le
differenziazioni  impositive  devono  essere  ancorate  ad   adeguata
giustificazione  oggettiva  la  quale  deve   essere   coerentemente,
proporzionalmente  e   ragionevolmente   tradotta   nella   struttura
dell'imposta.  Sotto  questo  profilo,  a  parte  le  esenzioni   per
tipologia di contribuenti sopra  indicate,  non  sembrerebbe  trovare
spiegazione un'esenzione di  imposta  per  gli  imprenditori  con  48
milioni di euro di fatturato cioe' poco al di sotto della  soglia  di
tassabilita' ne' troverebbe giustificazione  che  l'imprenditore  con
fatturato di oltre cento volte superiore al minimo  previsto  per  la
tassabilita'  sia   chiamato   a   versare   una   somma   meno   che
proporzionale». 
    Questi rilievi appaiono tanto piu' fondati in quanto  si  ravvisa
una discriminazione tra «le societa' italiane con ricavi superiori  a
50 milioni di euro iscritte al registro delle  imprese  tenuto  dalle
Camere di commercio italiane» e tutte quelle  imprese  straniere  che
non  hanno  una  «rappresentanza  stabile»  in  Italia  ma   comunque
esercitano  attivita'  di  impresa  nel  nostro  Paese  e,  pertanto,
usufruiscono dei servizi di  vigilanza  e  di  regolamentazione  resi
dalla  AGCM.  Al  riguardo,  deve  evidenziarsi  che  l'Autorita'  e'
chiamata a vigilare/controllare tutte  le  imprese  le  cui  condotte
siano causative di effetti anticoncorrenziali sul mercato italiano, a
prescindere dalla collocazione della loro sede. 
    Attesa, pertanto, l'omogeneita' della situazione di  fatto  presa
in considerazione della legge ai fini della imposizione  fiscale,  la
limitazione della platea dei soggetti passivi chiamati al  versamento
del contributo (solo le societa' di capitali residenti  in  Italia  a
fini fiscali e i cui ricavi superano  le  soglie  indicate  nell'art.
7-ter legge cit.) crea un'ingiustificata  disparita'  di  trattamento
basata sulla nazionalita' o sulla organizzazione societaria. 
    4.  Ad  integrazione  dei  motivi  sopra  esposti  va,  altresi',
rilevato che appare ravvisabile la  violazione  del  principio  della
riserva di legge fissato dall'art. 23 della Costituzione in quanto il
potere di fissare  l'aliquota  e'  attribuito  alla  discrezionalita'
della AGCM senza che sia prevista una correlazione tra il  fabbisogno
per i costi sopportati dall'Autorita' e le entrate  ricavabili  dalla
riscossione. Soprattutto senza che siano previsti i criteri ai  quali
l'Autorita' debba attenersi nel determinare quelle che nelle sostanza
sono aliquote impositive; e cio' in  relazione  ai  soggetti  o  alle
categorie dei soggetti tenuti a versarle (elemento soggettivo) e alla
natura  e  importanza  delle   questioni   sottoposte   all'Autorita'
(elemento oggettivo). 
    L'art. 10, comma  7-quater  della  legge  n.  287/1990,  infatti,
demanda alla AGCM la  facolta'  di  apportare  con  fonte  secondaria
«variazioni della misura e delle modalita' di  contribuzione»,  senza
prevedere alcun criterio a cui la stessa  Autorita'  debba  attenersi
nella determinazione di tali importi. Le entrate ricavabili  da  tale
riscossione, pertanto, pur non risultando del tutto disancorate dalle
spese effettivamente sopportate dall'AGCM per  il  suo  funzionamento
(spese cui sono, invece, istituzionalmente preposte) vengono riscosse
in base a criteri lasciati alla mera discrezionalita' dell'AGCM. 
    A tale proposito la giurisprudenza della Corte costituzionale  si
e' espressa nel senso di ritenere illegittima la legge che «rinvia ad
una fonte di rango inferiore a  quella  legislativa  l'individuazione
delle  prestazioni,  senza  dettare  criteri   direttivi   idonei   a
restringere la discrezionalita' dell'organo amministrativo». 
    Dal momento che il ricorso in esame postula la applicazione delle
norme di cui al novellato art. 10 legge n. 287/1990, di  cui  non  e'
possibile un'interpretazione costituzionalmente orientata, se ne deve
rimettere alla Corte costituzionale il giudizio circa la  conformita'
o meno agli indicati principi della carta costituzionale.